Quando hai 12 anni la storia è lontana

Quando hai 12 anni la storia è lontana. I ragazzi capiscono bene perché devono studiare la grammatica, l’aritmetica o la geografia, ma spesso chiedono con tono solo in parte provocatorio: “ma perché dovrei studiare la storia a che cosa mi serve?”. E la risposta standard: “perché conoscere il passato ci aiuta a comprendere il presente”, magari condita da un breve pistolotto sulla necessità che non si ripresentino gli orrori del ‘900, non basta (tanto più se i ragazzi in quel momento tentano di digerire la lotta per le investiture o la guerra dei trent’anni). La storia è lontana e la retorica non l’avvicina.
Passare alla didattica attiva facendo la storia del quartiere, soprattutto se questo quartiere è vissuto con forte senso di appartenenza come nel caso di Vallette a Torino, è invece per loro un fatto evidente e concreto, immediatamente comprensibile.
Scegliere le persone da intervistare, selezionare le domande, valutare l’importanza dei contenuti, raccogliere fotografie, analizzarle porta i ragazzi a comprendere il procedere dell’indagine storica, il concetto di fonte e anche a sperimentare con mano qualcosa di molto semplice, ma per loro inizialmente non ovvio. Dopo che hai fatto la storia di un luogo o di un periodo, ne sai più di prima, lo conosci in modo diverso e di conseguenza ti appartiene di più. La storia moltiplica l’appartenenza dandole un significato. Sarebbe interessante da questo punto di vista notare e far notare ai ragazzi come nel lessico di alcune appartenenze, ad esempio quelle sportive, si faccia un uso smodato del termine “leggenda” che toglie la squadra del cuore dalla storia per spostarla in un altrove vagamente fantasy ed eroico che conferisce, ad esempio alla violenza, un sapore diverso e migliore.
Distinguere la leggenda dalla storia e cercare nella storia l’eventuale origine delle leggende è fondamentale per smitizzare la fama negativa offrendo però qualcosa in cambio.
La leggenda si annida negli interstizi del quotidiano (“A Vallette i controllori non salgono a dare le multe perché hanno paura di essere picchiati”), favorendo la deformazione e la rimozione collettiva (con spostamento nell’iperuranio della leggenda e dunque dell’immortalità) di fenomeni storici gravi e reali come la diffusione dell’eroina negli anni ’80.
Rispettare quindi il senso di appartenenza al quartiere dandogli però un nuovo significato.
Favorire la consapevolezza lavorando sulla distinzione tra storia e leggenda nell’immaginario collettivo della storia recente.
Aiutare la comprensione della metodologia storica e della pluralità delle fonti.
Queste sono le conseguenze immediate di un lavoro di public history sul territorio di un quartiere dalle molteplici criticità come Vallette.
Spetta poi al docente il difficile compito di far rientrare la storia piccola delle Vallette nella storia grande e far capire ai ragazzi che avere studiato le Vallette dovrebbe farti studiare meglio e con più interesse anche la lotta per le investiture o la guerra dei trent’anni.
E credo che quest’ultimo passaggio sia il più delicato e frequentemente trascurato dell’intero processo. La didattica attiva deve arricchire la didattica tradizionale offrendo appigli, non dividere in due la storia: quella noiosa dei libri dove “tanto sono tutti morti” e quella divertente dei vivi che ha più valore perché è di oggi, tangibile, concreta. Se alla fine la cerniera tra le due metodologie non si richiude la public history a scuola avrà dimidiato il suo effetto.

 

Chiara Bongiovanni